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Protagonisti Enrico Mariani Giovedì 15 febbraio 2018

Padri e figli nel pallone

Un giorno questo calcio sarà tuo è l'ultimo libro di Fulvio Paglialunga. Lo abbiamo incontrato a Bologna al Festival dei birrifici indipendenti.

Il book trailer del primo libro di Paglialunga

Siamo circondati da pinte e per rompere il ghiaccio proviamo a offrirgliene una. «Dopo l’intervista, dai». A declinare con un sorriso l’invito è Fulvio Paglialunga, autore televisivo, giornalista sportivo e narratore innovativo del mondo del calcio. Lo incontriamo a Bologna il 3 febbraio, durante il Festival dei birrifici indipendenti organizzato dal centro sociale Tpo, al cui interno la squadra di calcio antirazzista Hic Sunt Leones ha organizzato la presentazione del suo ultimo libro, Un giorno questo calcio sarà tuo. Storie di padri e figli, e di pallone, edito da Baldini & Castoldi.

Sappiamo che il libro nasce da un’esperienza personale.
«Sì, la prima volta con mio figlio allo stadio, lo Iacovone di Taranto. È stata una giornata molto intensa: dopo un po' la partita non c’entrava più niente. Ho sentito il livello di condivisione, di complicità tra me e lui, alzarsi. Quando sono uscito dallo stadio ho iniziato a pensare che qualcosa di grosso lo fanno tutti i padri che portano i figli a vedere il calcio, e che valesse la pena raccontare questa cosa».

La copertina del libro di Fulvio Paglialunga Fulvio Paglialunga
Un giorno questo calcio sarà tuo. Storie di padri e figli, e di pallone
Baldini + Castoldi
Milano 2017
pp. 244
€ 13,60

Dal risvolto di copertina: «Fulvio Paglialunga racconta le storie dei più famosi genitori che hanno lasciato il gioco in eredità ai figli – da Cesare e Paolo Maldini a Bruno e Daniele Conti, da Jacky e Stuart Fatton a Valentino e Sandro Mazzola, da Peter e Kasper Schmeichel a Mazinho e Thiago Alcantara – fino a raccontare cosa sia oggi il pallone in Italia. Perché altre nazioni hanno saputo creare intere comunità intorno al calcio, anche attraverso lo ius soli, mentre l'Italia continua a mettere ostacoli al tesseramento».

Anche con tuo padre c’è un rapporto speciale legato al calcio?
«Da genitore ho recuperato la dimensione del figlio: ho iniziato a chiedere a mio padre tante cose che non mi aveva detto, scoprendo che era un grande tifoso della Juve e del Taranto. Ho provato a darmi una risposta sul perché non volesse dirmelo e solo dopo averne scritto lui me l’ha confessato: «Non ti ho mai detto quanto ero tifoso per non farti soffrire». Mio padre è uno che guarda il risultato sul televideo, la partita la soffre troppo. E allora ha detto: «Per cercare di non fartela vivere cosi, non ti ho parlato di calcio». Era una forma di protezione. Io non ho pensato a questo con mio figlio. Un bambino di sette anni che tifa per il Taranto: l’ho esposto alle sofferenze. Per questo forse mi arriveranno i servizi sociali a casa (sorride)».

Ricordi di estati mondiali. Quando si scrive e si fa ricerca, capita spesso di entrare in un loop mentale: tutto sembra diventare pertinente con il tema cui stiamo lavorando, ogni nuovo spunto è meritevole di entrare nel testo. Per cui si rischia di non finire mai più di scrivere. In questo caso il tema che “spinge” per entrare nel libro è quello dei ricordi estivi legati ai Mondiali di calcio. Infatti il figlio dell’autore è nato nel 2010, per cui il prossimo sarebbe dovuto essere il suo primo Campionato del mondo da tifoso. I Mondiali di calcio 2022 invece saranno in inverno e non ci sarà quella ritualità stagionale così tipica per le generazioni passate. La sua prima estate mondiale sarà nel 2026, quando avrà 16 anni. «Quando l’Italia è stata eliminata dai Mondiali – spiega Paglialunga – io mi ricordo esattamente dov’ero, ho ricordi legati a quelle partite. Tutto ciò trascende dalla passione per il calcio: nel danno che c’è nell’eliminazione dai Mondiali va considerato anche questo».

Da diversi anni si registra una crescente distanza tra i club e i tifosi. Secondo te il calo degli spettatori allo stadio è diretta conseguenza di questa distanza? Oppure manca (o è mancata) la trasmissione padri-figli?
«La nostra generazione a un certo punto scopre che esiste un nemico che si chiama “calcio moderno”. Visto che lo scopo di questo nemico è non farci andare più allo stadio, per farci rimanere davanti alla tv, come lo combattiamo? Non andiamo allo stadio perché siamo contro il calcio moderno. È un atteggiamento, secondo me, stupido. Come lo combatto invece? Dobbiamo andarci allo stadio, se esiste questo nemico. Se non li abbiamo portati allo stadio, non possiamo lamentarci che i nostri figli guardano le partite solo in tv. Per me il calcio è appartenenza vera, la vivi andando al campo. Poi se ti vuoi vedere uno spettacolo ti vede Juve-Real. Agendo egoisticamente perdiamo una generazione di tifosi: un bambino di quattordici anni che non va allo stadio è un tifoso perso».

Il calcio giovanile in Italia. Una delle principali falle, secondo Paglialunga, è l’assenza di un progetto che «vada a recuperare» i talenti. In Germania hanno un motto: «Se c’è un talento in montagna, bisogna andare a prenderlo». In Italia abbiamo invece delle strutture che aggregano giocatori che sono già a un buon livello. Non si va a “recuperare” nessuno dai campetti di periferia. Inoltre mancano dei passaggi intermedi che permettano ai ragazzi di crescere dal punto di vista professionale: uno su tutti la seconda squadra di un club di serie A che milita in seconda o terza divisione, come in Spagna e in Inghilterra. Così tra le giovanili e il professionismo perdiamo una quantità tragica di talenti: «Quando si dice che ci sono troppi stranieri nel calcio italiano, si pone male il problema: non ci arrivano gli italiani nel calcio italiano. Non formiamo italiani in grado di arrivarci, allora tra italiani mediocri e stranieri sufficienti prendiamo gli stranieri. Non perché sono stranieri, ma perché sufficienti».

La Uisp sente molto questi argomenti: lo sport dal basso, al di là e al di qua del professionismo, come strumento dell’attivismo sociale.
«Tutte le forme di partecipazione sono buone: le squadre dal basso, multietniche, che nascono con un intento sociale. È uno spreco non utilizzare uno sport così popolare per comunicare dei valori. Lo sport è business, ma questo non ne cambia la funzione sociale: era così anche in passato, con i cosiddetti ricchi scemi che ci mettevano i soldi per ottenere appalti e quant’altro. Dobbiamo valorizzare gli esempi giusti e sfruttare lo stadio come luogo di partecipazione, in modo che il professionismo diventi il traino per mandare messaggi sociali positivi. Per questo l’esposizione del calcio in tv non è necessariamente una cattiva cosa. Dipende come lo racconti».

Le narrazioni sportive. «Il calcio è una parte della società: ne parlo come di un valore a cui tengo, come la coerenza, l’umiltà. E il calcio è fatto di uomini. Io parto da questo presupposto: sono allenatori, calciatori, falliti, sono persone. Il calcio è lo strumento per raccontare le persone». Se questa è l’idea che muove la narrazione di Paglialunga sin dalla prima esperienza – nel 2011, con la trasmissione radio Ogni benedetta domenica da cui è poi nato l'omonimo libro (ADD editore, 2013) – non potevamo non parlare della recente “esplosione” delle narrazioni sportive, dai social media alla tv, passando per nuovi blog e pubblicazioni: «Ci fu un bel progetto che venni a seguire a Bologna nel 2012, Fùtbologia. Eravamo pochi, ma si iniziava a vedere una convergenza su alcuni temi. Adesso la cosa si è allargata e va benissimo, più siamo meglio è. Più siamo meno c’è spazio per il bomberismo , meno spazio anche per la narrazione dell’eterno romanticismo, del “quanto era bello il calcio una volta”. Non è assolutamente vero, sono cambiati i tempi e cambia il calcio. Aggiorniamo la narrazione, tenendo dei punti fermi che sono le idee, la socializzazione, la funzione sociale».

 

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