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Diritti Claudia Palumbo Mercoledì 14 dicembre 2016

«La forza della mafia sta “fuori” dalla mafia»

Il processo Aemilia tra Bologna e Reggio Emilia: storia di una regione erroneamente considerata sana e di una lunga infiltrazione mafiosa.

La convergenza. Mafia e politica nella Seconda Repubblica. Testo di Nando dalla ChiesaIl titolo di questo articolo è una citazione tratta da pagina 17 del volume La convergenza. Mafia e politica nella Seconda Repubblica, scritto da Nando dalla Chiesa, politico italiano, figlio del generale Carlo Alberto, ucciso in un agguato mafioso a Palermo nel maggio 1892. Come si legge nella quarta di copertina: «Una narrazione inedita degli ultimi vent’anni di storia italiana, che non fa sconti a nessuno».

Da Cutro, paese del crotonese, comincia un lento cammino migratorio ‘ndranghetista verso Reggio Emilia. Tutta la città e la provincia vengono pilotate dalla famiglia Grande Aracri, in stretta intimità con i più noti casalesi. Così, il “buon vivere” emiliano viene inquinato dai business quotidiani delle cosche: infiltrazione negli appalti, estorsioni e usura. Tutto ha inizio il 29 maggio del 2012 con un’intercettazione telefonica, avvenuta poco dopo il verificarsi della scossa di terremoto che ha colpito la regione emiliana: «È caduto un capannone a Mirandola», dice Blasco. «E allora lavoriamo là!», risponde ridendo Valerio. Parlano così due boss della ‘ndrina locale.

L'aula bunker del Tribunale di Reggio Emilia, sede del processo Aemilia

la storia di questa organizzazione si è rivelata in stretta connessione con alcune risultanze investigative e processuali precedenti, come le operazioni “Grande Drago”, “Edilpiovra”, “Scacco Matto” e “Pandora”

La radice di questa organizzazione criminale risale al 9 giugno 1982, quando Antonio Dragone, bidello della scuola elementare di Cutro e boss della locale ‘ndrina, arrivò in soggiorno obbligato a Quattro Castella, paese della provincia reggiana. A far da cornice a questa realtà è una vera e propria ragnatela di altri mafiosi, in soggiorno obbligato nella regione, con alcuni manovali e autotrasportatori provenienti da Cutro e dintorni. Al seguito amici e parenti giungono in questo territorio, per motivi di lavoro o richiamati dallo stesso Dragone. La prima fonte di guadagno, fin dall’inizio, è il traffico di stupefacenti, ma in un secondo momento l’organizzazione criminale inizia a pianificare una propria presenza nel tessuto economico emiliano. Dapprima tramite le estorsioni a danno di imprenditori conterranei o concorrenti e, successivamente, in costruzioni di imprese edili con partecipazioni ad appalti pubblici con contributo “interessato” di commercialisti e altri professionisti. Con indagini e controlli, da parte delle forze dell’ordine e dei magistrati, la storia di questa organizzazione si è rivelata in stretta connessione con alcune risultanze investigative e processuali precedenti, come le operazioni “Grande Drago”, “Edilpiovra”, “Scacco Matto” e “Pandora”. Grazie a queste, si è potuto ricostruire come, attorno all’imprenditore criminale Antonio Dragone e a Nicolino Grande Aracri, detto “Mano di Gomma”, gli ‘ndranghetisti avessero messo radici sul territorio emiliano.

Dragone, dopo aver fatto confluire i suoi interessi nella regione, viene arrestato e le redini passano nelle mani del figlio Raffaele, anche lui in arresto qualche mese dopo. Con i due capi in carcere, il potere passa nelle mani di Nicolino Grande Aracri. Ma tutto cambia con l’omicidio di Raffaele, ucciso nel 1999, da Grande Aracri, per continuare a detenere il controllo di quella che chiamano “locale”. Quando, nel 2003, Dragone viene scarcerato, cerca di riappropriarsi del clan. La guerra tra le due famiglie finisce nel 2004 con l’uccisione di Dragone a Cutro. È da qui che, secondo l’accusa, i Grande Aracri prendono il controllo della cosca cutrese, sia in Calabria che in Emilia.

In cosa consiste il “rito abbreviato”?

Il processo con rito abbreviato è uno dei procedimenti speciali previsti dal codice di procedura penale. In base all’articolo 438, l’imputato può chiedere che il processo sia definito all’udienza preliminare «allo stato degli atti», cioè utilizzando gli elementi acquisiti fino a quel momento sia dal pubblico ministero, sia dalla difesa e, inoltre, tutte le prove già assunte e, eventualmente, altre ancora che possono essere acquisite durante il giudizio.

Da quel brutto risveglio mattutino del 28 gennaio del 2015 la Direzione Antimafia di Bologna, assieme con le Procure regionali di Calabria e Lombardia, ha portato 117 arresti (tra Emilia-Romagna, Lombardia e Calabria), circa 224 imputati e quasi 500.000 di euro di sequestri. Dopo l’udienza preliminare, si è svolto nel padiglione diciannove della fiera di Bologna, messo a disposizione con le risorse della Regione Emilia-Romagna, il rito abbreviato con 240 imputati e 54 accusati di associazione a delinquere di stampo mafioso. Una prima fase del processo conclusa con la sentenza del Tribunale di Bologna del 22 aprile 2016 di 58 condanne, dodici assoluzioni e circa diciotto patteggiamenti, con innumerevoli sequestri di beni mobili e immobili. Ha avuto poi inizio, ed è tutt’ora in corso, il rito ordinario, con 147 imputati, 34 dei quali accusati di associazione mafiosa. L’ordinario viene svolto a Reggio Emilia in una aula bunker costruita appositamente dentro il cortile del tribunale. La corte è costituita dai giudici Francesco Maria Caruso, presidente, Cristina Beretti e Andrea Rat.

Cosa si intende con “collaboratore di giustizia”?

Il collaboratore di giustizia stipula un patto con lo Stato: riferire le informazioni provenienti dall’interno dell’organizzazione criminale in cambio di benefici processuali, penali e penitenziari oltre che della protezione per sé e per la famiglia.

Il processo si concentra su questioni che vanno oltre il semplice concetto di penetrazione territoriale: la cosca si presenta, infatti, come una vera e propria ragnatela della criminalità organizzata di natura mafiosa che abita all’interno di un tessuto economico sociale che si riteneva – erroneamente – sano. Dopo le lunghe giornate di udienza nell’aula bunker, nelle quali vengono interrogati e ascoltati dai giudici imputati e testimoni, emerge il nome di Giuseppe Giglio. Primo ed al momento unico pentito dell’inchiesta Aemilia. Originario di Crotone e residente a Montecchio, è un imprenditore attivo in vari rami collegati all’edilizia, in particolare nel trasporto di inerti. Esercita la sua attività movimentando ghiaia e denaro, il più delle volte in nero e attraverso false fatturazioni. Il suo nome figurava tra i 118 imputati nel processo Aemilia per i quali è scattato l’arresto la notte del 28 gennaio 2015. Condannato, in abbreviato, a dodici anni e sei mesi e attualmente detenuto in custodia cautelare nel regime 41 bis del carcere duro. Giglio dice: «Perché ho scelto di collaborare con la giustizia? Ho iniziato a collaborare con la giustizia dopo aver passato un anno in carcere. Nella mia vita ho sempre lavorato e nell’anno di reclusione ho riflettuto e mi sono reso conto di tante cose e mi sono pentito, è maturata così la scelta di scrivere ai Pm e collaborare».

Lontano da tutto e da tutti (dopo la sua testimonianza, guidata dai Pm Marco Mescolini e Beatrice Ronchi), i colloqui come collaboratore vengono fatti attraverso la connessione tramite un sito riservato e contestualmente proiettati in videoconferenza nell’aula bunker attraverso schermi giganti. È dal mese di novembre che il collaboratore di giustizia ha dato inizio alle sue lunghe conversazioni, nelle quali racconta il funzionamento degli affari all’interno della cosca. Quelli che, secondo gli investigatori, rappresentano lo scheletro della ‘ndrina emiliana.

sono 38 le parti civili in questo processo; tra loro associazioni, istituzioni e sindacati

Ad essere presenti alle udienze, che si svolgono due giorni a settimana nell’aula bunker del Tribunale di Reggio Emilia, sono anche cittadini che scelgono di non rimanere inerti e passivi davanti all’ingiustizia. Un ruolo molto importante viene svolto, nelle udienze, dalle parti civili, qualifica che assumono i soggetti danneggiati dal reato quando si costituiscono nel processo penale introducendo al suo interno l’azione civile volta ad ottenere, dall’imputato e dal responsabile civile, il risarcimento dei danni prodotti dal reato stesso. Ad oggi sono 38 le parti civili in questo processo; tra loro associazioni, istituzioni e sindacati. Tra queste c’è anche Libera, l’associazione nata il 25 marzo 1995 con l’intento di responsabilizzare la società civile nella lotta alle mafie e di promuovere legalità e giustizia. Attualmente Libera è un coordinamento di oltre 1.500 associazioni, gruppi, scuole e realtà di base, impegnate sul territorio per costruire sinergie politico-culturali e organizzative capaci di diffondere la cultura della legalità e della cittadinanza responsabile.

Il logo di Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafieLibera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie. Un sito che al suo interno contiene molte realtà: da Libera Terra (dove sono in vendita i prodotti coltivati sulle terre confiscate alle mafie) a Libera Informazione (osservatorio sull’informazione per la legalità e contro le mafie), fino a Il giusto di viaggiare (per un turismo basato sui principi di giustizia sociale ed economica).

La costituzione di parte civile di Libera, nel processo Aemilia, è patrocinata dall’avv. Vincenza Rando, responsabile dell’ufficio legale nazionale dell’associazione. Mediante questo atto Libera intende promuovere informazione, facendo conoscere questa dura realtà anche e soprattutto nelle scuole, rendendo più accessibile il complesso linguaggio dei tribunali. E infatti sono numerose le classi di vari istituti che, accompagnate dagli insegnanti, giungono con consapevolezza a riempire i banchi del tribunale. I loro programmi di studio presentano ampio spazio dedicato al percorso di approfondimento sui temi della legalità e della lotta alle infiltrazioni mafiose. Perché non il silenzio e non il timore aiutano a combattere le mafie. La vera vittoria è dare voce al popolo.

 

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